Di Ester Lucchese
A ventitre anni dalla morte dello scrittore di Racalmato, Leonardo Sciascia, la sua lezione di vita, attraverso la sapienza letteraria della sua produzione, appare quanto mai attuale, per quella capacità di aver saputo dare voce al modo di pensare, di odiare, di sospettare e di agire della propria gente. La mafia, diceva Sciascia, si combatte con il diritto. La Sicilia, nel contesto storico in cui egli visse, era lontana dalla libertà, dalla giustizia e dalla ragione. Il grande scrittore siciliano parte dalla convinzione che la storia siciliana sia tutta una sconfitta, sia della ragione che degli uomini ragionevoli. Lo scetticismo, pertanto, rappresenta quel margine di sicurezza, di elasticità ed appare il migliore antidoto per il fanatismo che uccide l’altrui libertà e la propria. Nell’opera Il giorno della civetta l’autore affronta il problema mafioso negli anni sessanta, rendendolo di dominio pubblico. Lo scrittore siciliano oppone all’omertà degli abitanti, i “panellari”, di un paesino vicino Siracusa, a causa dell’assasinio di Calasberna, presidente di una piccola cooperativa edilizia, l’eroe illuminista, rappresentato dal capitano dei Carabinieri Bellodi, emiliano ed ex partigiano, il quale riesce a smascherare la mafia. Il linguaggio, scarno ed essenziale, dello scrittore coglie la sostanza dei fatti accaduti e li registra nel racconto con singolare immediatezza. E mentre al pretore riferiva sulla identità del morto e la fuga dei viaggiatori, guardando l’autobus, ebbe il senso che qualcosa stesse fuori posto o mancasse: come quando una cosa viene improvvisamente a mancare alle nostre abitudini, una cosa che per uso o consuetudine si ferma ai nostri sensi e più non arriva alla mente, ma la sua assenza genera un piccolo vuoto smarrimento, come una intermittenza di luce che ci esaspera: finché la cosa che cerchiamo di colpo nella mente si rapprende.
Il racconto si apre con un omicidio avvenuto in una pubblica piazza. Lo spazio pubblico diventa bersaglio, dunque,della mafia, la quale si sostituisce a tratti allo Stato e lo controlla dall’interno. I carabinieri cominciarono a spingere i curiosi verso le strade che intorno alla piazza si aprivano, spingevano e chiedevano ai viaggiatori di andare a riprendere il loro posto sull’autobus. Quando la piazza fu vuota, vuoto era anche l’autobus; solo l’autista e il bigliettaio restavano”.
L’analisi puntuale sulla realtà siciliana di quegli anni appare oggettiva in quanto si svelano le logiche di un determinato contesto. Dice Sciascia che la famiglia rappresenta l’unico istituto veramente vivo nella coscienza del siciliano. La famiglia è lo Stato del siciliano. Dentro quell’istituto che è la famiglia, il siciliano valica il confine della propria naturale e tragica solitudine e si adatta, in una sofistica contrattualità di rapporti, alla convivenza.. La forma precisa e definitiva del suo diritto e del suo dovere sarà la famiglia, che consente più breve il passo verso la vittoriosa solitudine. La mafia si adattava allo schema familiare che si era venuti tracciando. Il primo testo letterario sulla mafia , considerato un racconto rivoluzionario sostiene che essa non è altro che “una borghesia parassitaria che non imprende ma soltanto sfrutta”. La letteratura per L. Sciascia deve poter servire perché è verità, redenzione e per tutto ciò è considerata utile. Lo scrittore è la persona dunque che vive e fa vivere la verità. La sua missione pertanto è stata quella di aver raccontato qualcosa della vita di un paese, metafora del mondo intero, che ha amato nella speranza di un riscatto del senso di giustizia per i siciliani. I suoi compaesani in realtà non hanno mai creduto nella forza delle idee per andare avanti, perché per loro il mondo non poteva essere diverso da come è stato.