Di Ester Lucchese
Avevo distrattamente notato l’immagine della copertina di un libro, intitolato La favola bella, posto sulla mensola lignea del camino della casa paterna, che presentava in primo piano un ulivo dalle foglie argentee, antistante un piccolo casolare, sovrastato da un limpido cielo. La curiosità successivamente mi ha spinta ad aprirlo e con piacevole sorpresa, nel leggere le pagine iniziali, sono stata colpita dal termine “Muntimancu”, un esteso appezzamento di terreno, dove mio zio, Giuseppe Camarda, spesso si ritemprava praticando, come hobby, un mestiere dove la gente di un tempo sperimentava il sacrificio del vivere quotidiano. Affascinata da una frase iniziale che riporto testualmente: “Dai silenzi brulicanti di vita di campagna i contadini imparavano a riflettere, non a parlare”, ho continuato a curiosare fra le pagine del libro. Per custodire nell’animo quelle sensazioni che scaturiscono dall’empatia fra chi descrive i palpitanti ricordi di un tempo passato e chi li legge, occorre accostarsi al prezioso scritto con atteggiamento riverente ed affettuoso. “La favola bella” è un’ opera davvero singolare e di gran pregio che mancava nel repertorio letterario pulsanese. L’autore utilizza non solo una scrittura ed uno stile raffinato ma valorizza sopratutto quel meticoloso studio sulle tradizioni popolari, sul folklore e sugli antichi mestieri. Dall’intreccio di linguaggio aulico ed umile accompagnato da appropriate citazioni e da modi di dire in vernacolo, si espande un sottile senso di ironia che rende l’espressione viva e degna di dar rilievo alle meritevoli doti dell’autore, docente e studioso di lingua inglese. Lo scritto è pregno di dati sensoriali: olfattivi, visivi e tattili, come in questa immagine descrittiva che riporto testualmente perché particolarmente efficace nell’invitare tutti coloro che non l’avessero fatto a condividere con l’autore un tempo continuamente presente, fissato per sempre nel racconto. “Non c’era più l’alto vecchio ciosu (albero del gelso), che stendendo ad ombrello davanti la casa i suoi rami patiti dagli anni, riusciva ancora a smorzare gli ardori del sole estivo e ti dava, se scosso, con una scarica sonante simile a uno scroscio improvviso di pioggia, i suoi dolcissimi frutti, facendoli magari contendere alle miriadi di ghiotte formiche sempre in agguato”. I personaggi che hanno avuto una valenza importante nel proprio vissuto acquistano spessore grazie al nomignolo, segno caratteristico nel mondo popolare, che allude con sprezzante valore espressivo, scherzoso, a caratteristiche fisiche o morali( Nonnomasclu), ai mestieri (Ntoni lu Pignatu, Pippinu Zituloni), ma può alludere anche a vicende della vita ( Magghiatu, appellativo che si affibbia a qualcuno “ in riferimento al dubbio sulla fedeltà della moglie). L’usanza del soprannome fu estesa sin dal IV sec. a. C. ai tempi dei Romani. Era consuetudine, come possiamo notare attraverso un esempio esplicativo, che oltre al nome ed al cognome i romani avessero un soprannome. In Marco Tullio Cicerone il soprannome è rappresentato dal termine cicerone da cicer che significa cece. Esso era riferito al fatto che un noto antenato dell’oratore latino avesse sul volto un’escrescenza a forma di cece. Procedendo nella lettura, le esperienze personali hanno come sfondo il periodo post bellico. Calzante appare l’immagine del treno che sembra sottrarre il protagonista all’infanzia felice, trascorsa nel paesino del sud. L’adolescente che compie il “viaggio” sta per iniziare una nuova vita(incepturus est vita nova) nel collegio di Alba e nota i segni della distruzione e della morte di una guerra assurda in alcuni luoghi martoriati d’ Italia. È così che viene rievocato il ricordo di quella esperienza.“Tutto assumeva l’aspetto di enormi cumuli sepolcrali di un grande cimitero, sui quali qualche lampione qua e là sembrava piangere una luce incerta, nebbiosa, inutile”. Nella congregazione “Società San Paolo”( fondata da Don Giacomo Alberione) si forgia l’adulto, dedito a tutte le pratiche religiose quotidiane, al quale come attività manuale, oltre allo studio e alla scuola, fu assegnata l’arte tipografica. Il ricordo rispettoso di alcuni insegnanti fra cui il prete che insegnava italiano, Don Viano, mette in luce alcune caratteristiche della sua futura vocazione: l’insegnamento nella scuola( una volta che decise di aderire al mondo, lasciando il collegio). “Si divertiva da matto a leggerci, dichiara l’autore, gli episodi di Don Camillo, per renderci partecipi del suo piacere, fermandosi a mettere in evidenza lo stile della forma, le sottigliezze dell’ironia, la proprietà dei termini, la bellezza di certe descrizioni, i comportamenti dettati dai sentimenti latenti nelle innumerevoli pieghe dell’animo umano. Ci coinvolgeva totalmente nel suo piacere e nell’ansia dell’attesa dell’episodio successivo”.