Dottoressa Paola Bozzani*
Nel XVII secolo la popolazione di Bari Vecchia (ricordiamo che all’epoca esisteva solo questa parte della città attuale) si aggirava tra le 15.000 e le 18.000 unità, ma nel 1656 a causa di una violentissima e terribile epidemia di peste solo a BARI morirono più di 12.000 persone. A conferma che tutte le epidemie colpiscono indistintamente tutti i ceti, le vittime della peste furono così ripartite: 5.000 tra la gente agiata, 7.000 tra ipopolani; morirono, inoltre, 10 nobili e tra il clero della cattedrale 8 canonici, 37 sacerdoti, 300 clerici, mentre tra il clero di San Nicola 14 canonici, 11 sacerdoti e 27 chierici. Non riuscirono a salvarsi neppure i medici, infatti tre di loro furono colpiti a morte: Prospero Del Core, Giambattista Pirris, Nicolò Nittis e non fu risparmiato neppure il clero regolare, così passarono a miglior vita 60 monaci e 2 monache. I fatti descritti
dal Petroni, a sua volta tratti dal volume le “Conferenze storiche” di Pietro Gioia, hanno tante similitudini con le vicende dell’odierna pandemia. All’inizio a Napoli, poi anche a Bari, si cercò di negare che fosse peste e si parlava di febbre maligna e apoplessia. Il Viceré di Napoli temeva di non poter mandare le proprie milizie in soccorso del Duca di Milano contro il Re di Francia; a Bari si temeva invece che, diffondendo la notizia del morbo, i “vastasi” che portavano ogni giorno in città la frutta e la verdura smettessero di venire e lasciassero la popolazione affamata.
Il medico che per primo parlò apertamente della peste, Giuseppe Verzillo fu rinchiuso nel castello, in modo che non potesse più parlare.
Alcuni uomini e donne provenienti da Napoli furono messi, per sicurezza, in quarantena. Si fecero tante processioni e l’arcivescovo, vestito umilmente, seguito da uomini e donne con cilici, croci e corde per flagellarsi, portò in processione l’ effige della Madonna di Costantinopoli per chiedere la grazia che la diffusione del morbo fosse scongiurata. Ma quando, all’inizio dell’autunno alcune delle persone poste in quarantena morirono ed anche in città ci furono i morti – due fanciulli della famiglia dei Gironda ed uno dei Fanelli – non fu più possibile nascondere la verità.
Allora il governatore della città, Francesco Monreale “dette grande argomento d’animo generoso, correndo dappertutto dì e notte, per menomare ai sani l’orrore, la sconfidenza agli infermi, ed inculcando la nettezza (pulizia) e la segregazione dei cadaveri”.
Poiché il popolo, un po’per consolarsi della povertà, un po’ per esorcizzare le cattive notizie e godere del tempo ancora clemente, si intratteneva, secondo la consuetudine, suonando e cantando tutta la notte l’ Arcivescovo emise un’ordinanza (in quel tempo le ordinanze si chiamavano monitorii e venivano appese alle porte della chiesa per tre settimane in modo che tutti potessero venirne a conoscenza) in cui affermava:
“Non essere più il tempo di vanità e di piaceri, ma di sospiri e pianti; sovrastare la morte e morte di peste; si volgessero alle orazioni, ai digiuni e ad altri esercizi di pietà”.
Le autorità, l’ Arcivescovo, il Priore e i due Sindaci, gareggiavano in liberalità. Il Priore riunì i canonici per esortarli a distribuire il cibo agli infelici che erano chiusi in casa per la quarantena e li invitò a utilizzare per le elemosine tutte le entrate dell’Ospedale dei pellegrini.
Ettore Carafa, signore di Corato e duca di Castel del Monte, mosso a pietà, inviò a Bari 3.000 tomoli di grano, di cui 200 in regalo per le famiglie più povere.
Il contagio, intanto, in città aumentò ancora a causa delle processioni di penitenza e delle preghiere collettive e ben presto si diffuse nei paesi vicini, così l’arcivescovo ordinò ai frati degli ordini religiosi che abitavano in conventi fuori le mura (i riformati, i cappuccini, i paolotti) di rientrare in città dove sarebbero stati ospitati da altri frati dal momento che le loro case erano destinate ad essere utilizzate come lazzaretti per aumentare i posti letto a disposizione delle persone malate.
Furono chiuse tutte le porte della città, rimase aperta solo la porta più antica di fronte al castello, presidiata notte e giorno dalla milizia; così tutti coloro che si affrettarono a rientrare, trovandosi fuori per lavoro o per necessità, furono ospitati in locande fuori le mura e non potettero entrare in città. Si adottarono,quindi molte misure che oggi chiameremmo di distanziamento sociale e di lockdown.
Nonostante l’importanza e il grande rilievo dato alle pratiche religiose in quegli anni, si vuotarono le acquasantiere e si dispensò la popolazione dall’obbligo della partecipazione alla messa domenicale, nella Cattedrale e a San Nicola fu esposto il Santissimo ma la gente che pregava in chiesa doveva mantenere la distanza di sicurezza. Il popolo rimaneva in casa, pochissime persone si avventuravano per strada ed erano coperte di vesti pesanti che lasciavano scoperti solo gli occhi, molti portavano anche bastoni per allontanare coloro che? dovessero passare troppo vicini e i sospetti di contagio; era proibito uscire ed entrare nei monasteri, furono vietate le campane a morto per evitare gli assembramenti, i passanti non si salutavano, non conversavano tra di loro, gli accattoni, per liberare le strade, erano stati portati tutti negli ospizi dove erano mantenuti a spese della città.
Ogni settimana due padri appartenenti agli ordini religiosi, a giro, annunziati dal suono della campanella, passavano per distribuire la comunione e c’erano stati persino dei casi di persone che avevano dettato il testamento dal balcone.
Ad ogni quartiere furono assegnati i medici e i caporioni che dovevano segnare ogni giorno i nuovi infetti e inviarli nei luoghi deputati alla cura; avevano, inoltre, l’obbligo di vigilare sulla pulizia. In piazza venne montata una forca per punire i trasgressori. Il Priore nonostante l’infuriare del morbo girava per le strade ogni settimana per soccorrere chi ne avesse bisogno, l’Arcivescovo si recava a confortare i malati nei lazzaretti. Anche alcuni fenomeni di psicologia di massa rivelano molte similitudini con il sentire odierno, la tendenza ad esempio del popolo a colpevolizzare esageratamente i comportamenti anomali. Il Petroni afferma che fu sparata con un archibugio una persona scoperta a rubare alcuni panni da una casa ritenuta infetta.
L’altro fenomeno che, bene o male, abbiamo visto comune a tutti gli Stati colpiti dalla odierna pandemia è la tendenza delle autorità civili e religiose a trasmettere ottimismo alla popolazione tramite slogan e a incrementare lo spirito di comunità e di vicendevole sostegno.
Così il canonico Francesco Polidoro, pregando davanti ad una antica immagine di San Nicola, leggendo un libro sacro, pronunciò queste parole “Pax vobis nolite timere; pro salute enim vestra misit me Dominus ante vos; sum Nicolaus ego vobiscum, qui modo dego, ut me vero experiamini” (Pace a voi, non temete; il Signore mi ha inviato per salvarvi; io, Nicola sono con voi, io che esisto soltanto perché mi mettiate alla prova).
Da questa frase si trasse un augurio di salvezza, fu ripetuta innumerevoli volte e risuonò come una
promessa per tutta la città, si cantò per le strade, nelle case e nella provincia fuori dalla città, furono stampate innumerevoli copie dell’immaginetta di San Nicola con la scritta augurale e alcune portate con la manna nei lazzaretti; quattro canonici aspergevano le strade e molti portavano ampolle di manna con sé, tanto che ben presto il liquido sacro incominciò a scarseggiare.
Il Priore della Basilica, su richiesta anche delle autorità laiche, decise allora di far uscire la statua di San Nicola, verso le “tre di notte” (equivalenti alle 9 di sera, perché secondo il computo antico le 19 erano la prima ora della notte); la statua, preceduta dalle autorità e dal popolo con le torce accese, fu portata in piazza Mercantile e collocata su un altare appositamente costruito. L’ora tarda era stata scelta per evitare che si raccogliesse una gran folla, ma tutto fu inutile, arrivò talmente tanta gente che la chiesa non poteva contenerla. Contemporaneamente fu spedita una delegazione al santuario di San Michele Arcangelo sul Gargano perché pregasse nella grotta e, tornando in città, portasse le pietre benedette a forma di croce. Al ritorno l’Arcivescovo accolse i delegati nel cortile del palazzo, dove era stato appositamente costruito un altare e, una volta spaccate le croci in piccoli pezzi, questi furono distribuiti al clero, alle autorità e a chi ne
facesse richiesta. Questi due eventi avevano prodotto tali e tanti assembramenti che le conseguenze non tardarono a manifestarsi e la diffusione del morbo si aggravò; ogni giorno si contavano più di 100 vittime, le porte delle case infette furono segnate con grandi croci bianche, le carrozze trasportavano gli infermi ai lazzaretti e i carri i cadaveri nelle fosse comuni, vestiti e oggetti personali venivano bruciati fuori città, mentre i monili d’oro e i preziosi, dopo essere stati disinfettati, erano conservati nella chiesetta di Santa Barbara.
Per pagare e ritirare le merci si usavano tasche attaccate alle estremità delle canne, artificio che permetteva di mantenere le distanze, le lettere venivano disinfettate con fuoco e aceto, “i deputati e i medici giravano la città con maschere sul viso”, le nobildonne rifiutavano di far entrare le cameriere, i sacerdoti non accettavano più l’aiuto dei chierichetti.
Più della morte spaventavano le orribili sofferenze cui condannava il morbo, molti perdevano il senno e fuggivano dalla città andando a morire soli nella campagna. Anche se i fanciulli erano stati le prime vittime, i giovani furono in gran parte risparmiati dal morbo e molti restarono orfani.
“Una schiera di uomini di gran cuore esposero la loro vita per salvare l’altrui, quali soccorrendo ai bisogni di natura quali a quelli dell’eternità“. Furono tanti i medici che diedero la loro vita per curare i malati e molte furono pure le vittime tra il clero e i frati tanto che l’ Arcivescovo dovette avvalersi dell’aiuto di uomini pii laici per la somministrazione dell’estrema unzione.
Finalmente alla fine di febbraio la virulenza del morbo diminuì e in coincidenza con la festa della Madonna dell’Odegitria (tradizionalmente celebrata il primo martedì del mese di marzo) cessò del tutto. Le epidemie di peste e altri tipi di malattie infettive erano molto frequenti nei secoli passati anche a causa della qualità dell’acqua che si beveva.
I palazzi nobili (le così dette case palazziate) erano infatti dotate di una o più cisterne di acqua piovana convogliata dai terrazzi; era acqua di buona qualità, ma potevano usufruirne solo i proprietari e, quando parti del palazzo venivano concesse in fitto ad altre famiglie, la possibilità di attingere acqua dalle cisterne della casa doveva essere esplicitamente prevista dal contratto di fitto. Tutto il resto della popolazione doveva accontentarsi di attingere l’acqua dai pozzi pubblici uno dei quali, come è noto, era stato aperto dalla Regina di Polonia Bona Sforza, duchessa di Bari, sul retro della cattedrale; un altro era, con ogni probabilità da tempi più antichi, presente nella corte che in seguito, a fine ‘700, prese il nome di Corte Zeuli, altri erano in diversi siti della città. La qualità di queste acque doveva essere pessima e così dovette rimanere per secoli; infatti nel 1878-79 lo Stato italiano, preoccupato per le condizioni sanitarie della popolazione, assegnò all’ingegnere Filonardi il compito di studiare la qualità delle acque che si bevevano in Puglia ed egli girò la regione in lungo e in largo; queste le parole della sua relazione: “Le piogge bagnavano le strade immonde in cui si usava sversare i liquami e quella broda spartana, senza essere altrimenti filtrata, veniva a depositarsi nei cisternoni comunali costruiti con ingenti spese. Il solo processo di naturale sedimento delle materie pesanti riusciva a chiarificare in parte quei liquidi”. L’ingegnere affermò, inoltre, nella relazione che tutti i pozzi pubblici, dalla costa fino a cinque chilometri all’interno, erano infiltrati di acqua salmastra.
Nelle campagne le acque erano raccolte in cisterne dette piscine nelle quali si infiltravano le acque scorrenti dai terreni coltivati, dai fossati laterali delle strade, nonché, a volte, finanche le acque scorrenti da aie e “iazzi”, spianate in cui si raccoglieva il letame. Tra Molfetta e Giovinazzo – affermava il Filonardi – l’acqua di una piscina mandava un odore nauseabondo e, indagata la causa, constatò che la piscina oltre a raccogliere l’acqua della strada riceveva gli scoli di un vicino letamaio.
Le condizioni igieniche in cui viveva la popolazione erano davvero precarie anche a causa della cronica mancanza d’acqua, il de Cesare affermava, infatti, che la Puglia insieme alla Sardegna era la regione dove le piogge erano in assoluto le più scarse.
Così, sempre citando il Filonardi, se vogliamo fare un esempio che può valere anche per i secoli precedenti, il colera si diffuse a Bari nel corso dell’800 per cinque volte nell’arco di cinquant’anni (nel 1837, nel 1852, nel 1854, nel 1855 e nel 1866 ). Infine nel 1973 l’Italia fu divisa in due da un cordone sanitario perché il colera si era nuovamente diffuso a Napoli e a Bari.
Da quanto detto credo si possa dedurre, pur con le dovute epocali differenze, che le condizioni ambientali sono una delle cause determinanti nella diffusione delle epidemie.
NDA. Le notizie sulla situazione durante l’epidemia di colera a Bari nel 1656 sono tratte da Giulio Petroni,
Della storia di Bari dagli antichi tempi fino all’anno 1856. Le altre notizie sono tratte dallo studio dei contratti notarili conservati nell’Archivio di stato di Bari, nonché da uno studio da me effettuato sulla storia dell’ Acquedotto pugliese finalizzato ai lavori di ordinamento dell’archivio dell’ente da me diretti. I brani tra virgolette sono tratti dal libro del Petroni.
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*già Ispettrice Sovrintendenza Archivistica di Bari.