Daniele Giancane con la nuova silloge compie un’altra acrobazia poetica che è nel contempo filosofica, nel senso che i versi, la musicalità, il canto… si trasformano in un percorso di analisi esistenziale, di ricerca ontologica dei caratteri fondativi il vivere.
I versi di Giancane sono un tentativo di nominazione delle cose, di ciò che noi dibattiamo e diciamo; e per questo fine avvia un singolare quanto suggestivo parallelismo poeta-tartaruga, elaborando un canto semplice e speculativo; il poeta barese procede ponendosi domande retoriche sulle cose, sul linguaggio, tentando improbabili scavi nel coglimento dell’essere, che in realtà (e il poeta lo lascia intendere) può avvenire solo intuitivamente, come appercezione, senza mai poter né spiegare né raccontare: la Verità la si coglie così, proprio come Dante ha colto l’Altissimo, in un istante, in un bagliore, in un momento irripetibile.
Il dialogo che Giancane avvia con la sua tartaruga, dopo averla osservata e “adottata”, è muto, di quelli che fatta la domanda se ne suppone la risposta, sicchè il poeta ribalta i luoghi comuni di considerare la testuggine attendista, eteronoma, muta: tra silenzi e desideri, tra sogni e realtà, tra ciò che è e ciò che si vorrebbe che fosse, il poeta sostanzia la sua volizione e cerca di risolvere equazioni irrisolte. “Poi penso che tu sai come si vive/che la tartaruga ha i suoi segreti/e non li dice”; ecco sembra apparire in questi passaggi il Giancane conservatore, come dice in premessa: in ogni esistenza vi è una logica, anche lì dove non si manifesta; come a dire, il mondo è sotteso ad una ragione superiore, rispetto alla quale l’individuo è una monade cui non è dato sapere di più. E in un mondo ineffabile, la tartaruga diventa agli occhi del poeta una pietra miliare: “Sei cielo e terra insieme:/tu sei l’unità del mondo”; ovverossia, la sintesi del creato, con tutta la sua dimensione di essere-divenire (coacervo di passato, presente, futuro), testimone reale di quell’unità la cui essenza all’uomo sfugge; così essa diventa misura del tempo, perché : “Ti aggiri come se il mondo fosse sempre tuo./Come fu un tempo, come in futuro”. Per essere un concentrato di mistero e di presenza millenaria è una bussola: “Dicono gli aruspici […] che tu indichi sempre il Nord […] Sei […] la pietra filosofale dei viventi!”.
Il poeta prende atto del fallimento del pensiero Occidentale, della incapacità di dare risposte di senso, sicchè scrive: “Ci mostri che il tempo è davvero un’astrazione,/una scala indefinita, un pregiudizio”. Allora, la tartaruga è anche la misura della fallacia di spazializzare il tempo; recita ancora il testo: “Tu sei l’alba del mondo/il ricordo di ere innumerevoli e remote”. La tartaruga per essere tetragona al tempo fa dire al poeta: “Tu, dentro quel carapace antico, forse sai la saggezza del mondo […] e ci pensi con un sorriso di compatimento”.
Che cosa rimane, allora, all’uomo investigante? La possibilità di accettare la sconfitta oppure di cogliere l’assoluto in lacerti, in lampi che la poesia in quanto tale riesce a rendere. Così nel dialogo muto tra poeta e tartaruga si può rispecchiare il rapporto tra l’Io e l’assoluto. La tartaruga giancaniana diventa la presenza plastica della sostanza del mondo, la sua perfetta metafora, proprio mentre tutto intorno cambia e si riscrivere; e la poesia coglie la nostra provvisorietà e sfiora appena l’unità di quell’essere, che è e che diviene, con le figure retoriche.
Cosimo Rodia
Giornale Armonia Registrato al Tribunale di (Ta) N. 638 del 23/11/2004