A cura di Massimiliano Raso
Ancora oggi sono diffuse simpatiche espressioni quali “Ti ha morso la tarantola?” rivolte soprattutto a persone particolarmente irrequiete. Per spiegare la storia, certe volte, bisogna attingere a miti preesistenti delle società del passato. Può, infatti, il morso di un aracnide, la Lycosa tarentula, provocare dolori addominali, sudorazioni, palpitazioni ma guarire miracolosamente grazie a due tamburelli, ad un ballo che viene inscenato senza freni inibitori? Esiste un luogo dell’Italia meridionale dove ciò sembrerebbe possibile, in cui le tradizioni popolari scandiscono il tempo in un crescendo di emozioni: il Salento. “Terra del cattivo passato che torna e opprime col suo rigurgito”, luogo in cui una malattia psicosomatica conosciuta con il nome di Tarantismo viene sconfitta in musica, danza e colori, territorio dalle bellezze naturalistiche che si perdono nel tempo. E’ da qui che bisogna procedere alla scoperta della pizzica e del suo “patrimonio culturale” oggi riscoperto attraverso la nascita di variegati gruppi folcloristici ed esperimenti musicali. Il termine tarantismo sembrerebbe derivare etimologicamente da “taranta” e “tarantula”, voci da attribuire al toponimo Tarentum, cioè Taranto. Tra le antiche testimonianze, nella seconda metà del Cinquecento il poeta francese Nicolas Audebert, un ricco borghese d’Orleans, di passaggio in Italia segnala: “La Tarantola è più comune in Puglia che in nessun altra località e principalmente dalle parti della città di Taranto, donde ha preso il nome, perché durante tutta l’estate nei campi ce ne sono un’infinità.” Il trattato De venenis, del fiorentino Cristoforo degli Onesti (secolo XIV), contiene il capitolo De morsu tarantulae in cui si menziona il tarantismo come sindrome da avvelenamento dovuta al morso di un animale. Nel Seicento il tedesco Kircher scrive: “alcuni corrono, altri ridono, altri piangono, altri dormono o soffrono d’insonnia, (…) tutti sono presi da frenesia, sono furiosi, sembrano impazziti”. Ferdinando I ebbe a dire più tardi: “Mostrano i genitali, si strappano i capelli, si lanciano in mare”. La prima fonte scritta che cita la pizzica risale alla fine del Settecento (1797). L’aristocrazia tarantina offre al re Ferdinando IV di Borbone una serata danzante, nel testo si legge la parola “pizzica pizzica”, una sorta di tarantella migliorata. Alla fine degli anni Cinquanta l’etnologo Ernesto de Martino prova a fare chiarezza. La sua indagine viene effettuata sia sugli eventi sia sulle persone a lui contemporanee, in cui le tradizioni, i miti e i riti del passato convivono nel presente fra i paesi della Puglia. Si evince che, ad alcuni sporadici casi di reale morso della taranta, corrisponde una netta maggioranza di casi in cui il morso diventa un pretesto per risolvere traumi, frustrazioni, conflitti familiari e vicende personali. Dimostra come le pratiche rituali abbiano la funzione di scongiurare le ansie di un’esistenza segnata dalla povertà e dall’emarginazione (Clara Gallini). Se la pizzica ha attinenze con il tarantismo, che affonda le radici ai culti dionisiaci dell’antica Grecia, se un ballo può nascere da fenomeni paranormali, se il famigerato ragno centri o meno, forse non lo sapremo con certezza. Con il tempo, di fatto, la pizzica ha trovato una sua autonomia come tipo di danza e genere musicale. La fortuna della pizzica forse è il suo ritmo in 6/8 dato dal tamburello e la velocità di cui non ha nulla da invidiare alle danze più frenetiche coeve. Se per certi versi, quindi, il tarantismo è andato estinguendosi a causa dei mutamenti nei costumi della società, la pizzica viene continuamente rivisitata in contesti differenti e con significati nuovi, un esempio di “revival folklorico”, come ha detto l’antropologo Tullio Seppilli.
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