Di Serena Verga
Uno sfondo scuro e poi delle tavole di legno dal colore rosso fuoco, sparpagliate qua e là sulla scena: un rosso intenso, acceso, ma non tanto di passione, quanto di ferite rimaste ancora aperte, rosse come il sangue versato, rosse come il “comunismo”, rosse come le Brigate. Una sola attrice in scena, sì, donna, come quella donna che fu poi accusata di essere stata complice – insieme ad altri – del rapimento dell’allora presidente del consiglio nazionale della Democrazia Cristiana. Una voce femminile che si fa portavoce di una storia controversa, dalle troppe parentesi aperte, dopo ben quarant’anni dal sequestro e dall’uccisione di quell’uomo di nome Aldo Moro – che tanti (forse troppi!) avevano paura di affrontare davvero.
In collaborazione con la Compagnia Teatro Prisma (capitanata dallo stesso regista dello spettacolo), sono state tre le matinée (dal 12 al 14 marzo) al Teatro Abeliano di Bari, per poi sbarcare all’AncheCinema nello spettacolo serale del 17 marzo. Un pubblico prevalentemente giovane riempiva la platea per le speciali matinée commemorative. C’era silenzio in sala, un silenzio “pesante”, tanto da sentire addosso le colpe di essere nati da una generazione macchiatasi di un delitto ancora troppo attuale, un silenzio quasi assordante tanto quanto quel mare di omertà in cui sguazzavano indisturbati uomini “d’onore”.
Un testo teatrale ricco di parole quello di Giovanni Gentile: parole che restano, ricordano, segnano. Un testo in cui l’attrice Barbara Grilli ha saputo districarsi magistralmente mostrandoci uno spaccato della società dell’epoca, tra politici e gente comune, attraverso un corpo che sapeva parlare, raccontare, con un uso eclettico della voce che la vedeva prima uomo e subito dopo donna, passando da suoni più acuti a suoni più scuri, da toni gentili a toni più irriverenti e sarcastici, talvolta con vena alquanto provocatoria. Musiche a tema politico danzavano tra bugie, ipotesi e verità in un incessante climax ascendente in cui, in poco più di un’ora, si sono ricreati spazi, luoghi e situazioni solo con quelle tavole di legno rosse collocate in scena. L’attrice le ricomponeva per poi scomporle nuovamente in un continuo costruire e decostruire che sembrava rispecchiare proprio quella situazione di instabilità ed incomprensibilità di ciò che allora silenziosamente stava accadendo. Mi è sembrato davvero di essere lì, in via Fani, quel maledetto giorno qualunque in cui tutto è iniziato. È come se ci fossimo saliti sul serio in quella Fiat 130 blu e in quell’Alfetta bianca, assieme alla scorta di Aldo Moro, tanto da sentire addosso la loro indiscutibile età dell’inconsapevolezza.
Un teatro “civile” che sa farsi puzzle dal vivo, per cercare di ordinare i pezzi di una storia che turba, inquieta, fa riflettere e commuovere, ed in cui a mancare sono proprio i pezzi più importanti. Un puzzle fatto di tavole rosse che hanno ridato realisticamente vita anche a quei pochissimi metri in cui Aldo Moro è stato costretto a finire i suoi giorni, in pieno isolamento, lì dove i suoi “piccoli occhi mortali” hanno continuato a vedere le menzogne dell’epoca. Un teatro apparentemente lento ma fortemente dinamico, in cui “tutto scorre” inesorabile, in un gioco di parole e movimenti attraverso cui le tavole, restringendosi, rappresentavano metaforicamente quella sensazione di soffocamento e di apparente impotenza in una situazione ormai già clandestinamente organizzata. “Se ci fosse luce sarebbe bellissimo”, scrisse Aldo Moro a sua moglie Eleonora, pochi giorni prima dalla fine. Una luce che è ancora buio. Una luce che forse fa ancora troppa paura. Ma paura di cosa? “Chi ha paura di Aldo Moro?”.