Di Serena Verga
Lo scheletro di un teatro ed una scena essenziale, spoglia, che sarà riempita da divinità e mortali, raccontando una storia che dopo duemila anni riesce ancora a volare alto, dopo aver subito varie trasposizioni, maneggiata accuratamente dalla penna di diversi ed eccelsi registi dall’infinita creatività. L’Anfitrione di Plauto è la storia di tutti noi, di chi deve fare i conti con se stesso e la propria identità, è la storia del doppio, delle trasformazioni, anche delle bugie, la storia delle storie dove cielo e terra si mescolano in un incontro/scontro al limite dell’immaginario. Teresa Ludovico riesce magistralmente a metterla in scena in modo del tutto originale, restando sì fedele al testo plautino, ma aggiungendoci una tale contemporaneità da far sì che Anfitrione diventi ancora di più uno di noi, uno dei nostri giorni, un uomo che sbaglia, grida, scherza, attraverso una meridionalità spiccata che strizza l’occhio al pubblico in sala, facendolo così divertire nell’umanizzazione del divino, con un’accurata scelta registica che fonde teatro e cinema, classicità plautina – appunto – e modernità da Gomorra. Un teatro sperimentale ben riuscito, tanto che fuori dal teatro c’era gente che continuava a parlare dello spettacolo e dell’elevato livello attoriale del cast, ridendo e talvolta imitando le forme più grottesche e le battute più divertenti di alcuni personaggi di questa storica tragicommedia.
Hanno conquistato il variegato pubblico del Kismet dall’8 all’11 marzo per il Teatro Pubblico Pugliese e poi il 17 e il 18 per i Teatri di Bari. Sei attori (Michele Cipriani, Irene Grasso, Demi Licata, Alessandro Lussiana, Michele Schiano Di Cola, Giovanni Serratore) ed un musicista (Michele Jamil Marzella) che con la loro indiscutibile bravura sono riusciti a reggere un’ora e mezza di spettacolo senza sosta, attraverso un forte dinamismo (sia recitativo che scenografico) che ha tenuto avvinta l’attenzione dei presenti. Ed in più con un uso eclettico della voce: forte, intensa, si passa da suoni “cavernosi” e per così dire “terreni” a suoni più sublimi, “divini” è il caso di dire. Un testo che viene intervallato da musiche che si prestano fortemente alla danza (curata dalla coreografa Elisabetta Di Terlizzi) ed una parola al servizio della musica stessa con un ritmo serrato che faceva davvero volare il tempo. Lo stesso compositore/musicista è in scena nella parte di se stesso (indossando un costume che si uniforma alla storia) con intrusioni saltuarie che riprendono il gioco del doppio con l’alternarsi da un trombone ad un particolare strumento a fiato tibetano (il radong) che emana suoni d’Olimpo. Sei specchi ed uno studiato gioco di luci e riflessi sono il cuore di questa riuscita rappresentazione di Teresa Ludovico con le scenografie di Vincent Longuemare. Un modo diverso per raccontare una storia senza tempo, una storia che per alcuni può essere considerata “pesante”, ma qui resa “leggera” e contemporanea, adatta a giovani ed adulti, in cui tutti si possono “rispecchiare”. Sei specchi – mobili – attraverso i quali i personaggi della storia passano agilmente dall’umano al divino, dal cielo alla terra, attraversandoli da una parte all’altra in un gioco creativo in cui lo stesso pubblico si sente parte integrante, vedendosi magicamente in scena accanto alle divinità Mercurio e Giove. Un pubblico protagonista – quindi – tanto quanto quegli specchi che li ritraevano. Uno spettacolo da vederci davvero doppio!