Sarei certo di cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire noi, aveva scritto e cantato Giorgio Gaber.
Ed Enzo Jannacci, suo amico, ha saputo cantare la solitudine, ma non era affatto solo. Perché era rappresentativo di qualcosa di molto più grande di lui, come d’altronde Gaber.
Erano rappresentativi della poesia che noi, impegnati in altre faccende e senza alcuna vena poetica, avremmo voluto esprimere, scrivere e cantare. Loro lo hanno fatto per noi. Le loro parole che non riuscivano a star dietro ai loro pensieri. La loro poesia che ha inventato un mondo bellissimo. Personalità vere le loro, spontanee, originali, estrose e duttili. Amici di grande livello artistico e intellettuale.
“Se potessi cominciare a dire noi” è un percorso di canzoni di Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci, interpretate e introdotte da Valerio Capasa e dalla GaJa Band composta da Stefano Attolini, Annalisa Campagna, Antonella Colangiuli, Francesco Coviello, Alfonso Giorgio, Roberto Grilletti, Michele Prezzano e Ugo Valori.
Lo spettacolo andrà in scena lunedì 27 febbraio al Teatro Auditorium Tarentum in via Regina Elena 122 e l’intero incasso sarà devoluto a favore del Centro Notturno di Accoglienza della Diocesi di Taranto.
“Abbiamo iniziato anche un’altra opera: un centro notturno di accoglienza per senzatetto, per senza fissa dimora. Questo per dire che non curiamo solo i migranti che vengono da fuori, ma anche i nostri poveri. Questo palazzo si trova alle spalle della casa del vescovo, Palazzo santa Croce; lo adegueremo per i senzatetto e i senza fissa dimora. Questo edificio conta 40 posti per uomini e 20 per donne, due o tre stanze per ragazze madri, le docce, la barberia e la mensa. Tutto questo proprio per venire incontro a questa domanda di coloro che hanno bisogno, sia migranti che vengono da fuori sia poveri che sono tra di noi” – aveva riferito Mons. Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto, che sarà presente allo spettacolo.
Quanto mai azzeccata risulta quindi l’accoppiata Jannacci-Gaber, per il tema e lo scopo della serata, visto che i nostri poveri fanno parte del “noi”, fanno parte di “noi”: ci riguardano, ci appartengono.
Appunto: se potessimo cominciare a dire “noi”, saremo certi di cambiare la nostra vita e quindi quella degli altri. È una questione di appartenenza.
“L’appartenenza non è lo sforzo di un civile stare insieme non è il conforto di un normale voler bene, l’appartenenza è avere gli altri dentro di sé – scrive Gaber – ….e questa strada non sarebbe disperata se in ogni uomo ci fosse un po’ della mia vita, ma piano piano il mio destino é andare sempre più verso me stesso e non trovar nessuno. L’appartenenza è assai di più della salvezza personale è la speranza di ogni uomo che sta male e non gli basta esser civile. E’ quel vigore che si sente se fai parte di qualcosa che in sé travolge ogni egoismo personale con quell’aria più vitale che è davvero contagiosa”.
Ma da questo linguaggio diretto e penetrante non è escluso Jannacci. Ambedue i cantautori milanesi nei loro testi ci fanno ridere e piangere contemporaneamente.
Entrambi ci aiutano a guardare in faccia le persone concrete, dal barbone che portava le scarpe da tennis al signore “triste col suo bicchiere di Barbera”, dal ragazzino ammazzato a soli 13 anni alla singola Maria che è più importante di ogni ideologia e di tutta la politica.
Nei due artisti, prevale la commozione sulle belle idee, quelle che non hanno mai spostato di un millimetro il mondo, infatti “un’idea, finché resta un’idea, è soltanto un’astrazione”.
E nemmeno “il potere dei più buoni”, ossia dei professionisti della solidarietà, costruisce davvero, perché “non puoi conoscere gli altri e tutto ciò che ti circonda se non riesci a conoscere prima di tutto te stesso e chi ti sta vicino”.
È vertiginoso come le parole semplici di alcune canzoni sappiano farci scoprire che “l’unico motivo per cambiare le cose sei tu”. Tu, con il tuo “desiderio”, che è “l’unico motore che muove il mondo”.
Mettendo in ridicolo il mito moderno dell’uomo che si fa da sé, Jannacci esalta il poveraccio che arriva perfino a ridere delle ingiustizie: “è come un’illogica allegria”, per dirla con Gaber, che può spuntare nel cuore di chi pure sa bene che “tutto va in rovina”, ma che, improvvisamente, si accorge della realtà e torna a vivere, a “vivere il presente”.
Così la propria personalità vive, è viva, nella consapevolezza di “avere gli altri dentro di sé”, perché reciprocamente ci si appartiene, con uno struggente bisogno tremendamente umano di avere “un luogo, un posto più sincero, dove magari un giorno molto presto io finalmente possa dire: questo è il mio posto”, e in cui questa coscienza possa crogiolarsi e possa farci gustare il centuplo che è quaggiù.
Vito Piepoli
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