IL CIELO TRA LE SBARRE è un libro poetico, incantato e misterioso.
Il plot. Felice è un pastore, figlio di pastori e dell’intera comunità, perché punto dall’argia (come la famosa taranta nel Salento), vince la battaglia tra la vita e la morte grazie alla musica, ai canti, ai travestimenti e alle preghiere dell’intero paese (Sardo?!).
Poco più che ventenne, in una delle sue transumanze, uccide un giovane che tenta di sottrargli alcuni agnelli, ed è condannato a quindici anni. Felice non sopporta il regime carcerario fatto di celle, sbarre, ore d’aria, cortili angusti, lui abituato al vento, al cielo infinito, alle lunghe marce, sicchè tenta il suicidio; poi, si ritrova in biblioteca e con un libro tra le mani di un veterinario che preconizza un carcere aperto; da quel momento Felice scrive una serie di richieste di trasferimento per una prigione senza sbarre. Alla fine è accontentato e inviato a scontare la pena su un’isola-carcere. Anche qui mentre cura le bestie a disposizione dei detenuti, gli monta un altro raptus omicida, quando un secondino gli sottrae degli agnellini. Ma è graziato e sconta solo qualche giorno di isolamento, e da questo momento parte il vero percorso di recupero fatto di non violenza, di rispetto dell’altro e di autocontrollo.
Un libro semplice nella trama, scritto dalla parte di “Caino”, non a caso pubblicato con il patrocinio dell’Associazione “Antigone” che si batte per i diritti e le garanzie nel sistema penale. Un romanzo comunque che farà discutere, non a caso la Raffaello l’ha inserito nella collana “Insieme”. Gli aspetti qualificanti sono certamente l’assenza nella narrazione: di momenti bruschi o eccessivamente violenti, la leggerezza nel trattare il sovraffollamento delle celle o la pratica dell’isolamento, la dialettica tra carcerati; tanti problemi rappresentati senza mai cadere nell’aperta denuncia, facendo prevalere la tecnica della “stilizzazione”.
Se dunque nel romanzo sono affrontati temi scottanti, per i quali il compianto Marco Pannella ha dedicato metà del suo impegno civile, c’è un secondo aspetto che rende il libro prezioso, ovvero la rappresentazione dell’incanto, delle situazioni in cui l’immaginazione trova terreno fertile, il riferimento ad una civiltà atavica fatta di riti e credenze collettive, la dimensione agreste-pastorale fatta di solitudine, simbiosi col mondo della natura e degli animali.
Un libro bino, dunque, per molti tratti engagé, ma anche etnografico, magicamente violento, come violenta è la primitività “alogica” dell’uomo, legata allo spirito di conservazione e come magica è la cultura popolare, in cui l’Altrove, come visione del mondo, che non è “altro” dalla realtà, ma realtà essa stessa (come avverte Edgar Morin).
Un libro confezionato da un’ottima scrittrice che conosce tempi, modi, stili per parlare a farsi ascoltare anche dai preadolescenti “educati” a non essere frettolosi.
Cosimo Rodia
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