La Coldiretti alcuni giorni aveva già lanciato l’allarme. Si parla di una vera e propria strage di vongole, cozze, orate, anguille, cefali e saraghi causata dalle alte temperature dell`acqua lungo tutta la Penisola. Più volte la Coldiretti ha evidenziato l’anomalo innalzamento delle temperature dei mari che ha come conseguenza la fermentazione delle alghe che priva l`acqua di ossigeno e alla moria di pesci e molluschi in tutta Italia.
Dall`Emilia Romagna al Veneto, Friuli Venezia Giulia alla Toscana e finanche alla Sardegna, persino l’acquacoltura è a rischio. E, con essa, anche migliaia di posti lavoro.
Nondimeno a Taranto. Con il caldo record di quest’estate, si è perso il 70% del prodotto con conseguenti danni per circa 15 milioni di euro.
Apprezzate già da Giuseppe Ungaretti e Guido Piovene nei loro viaggi a Taranto negli anni ’60, ancor oggi le cozze tarantine sono considerate le più sicure d’Italia.
Apprezzate anche da rinomati chef di tutto il mondo, la loro produzione fu intrapresa mille anni fa nel bacino del Mar Piccolo, la nota laguna che bacia la terra di Taranto. Per tutti noi hanno da sempre significato le fatiche, la storia e le speranze di una città la cui economia principali si è basata per decenni sulla pesca e sul mare.
L’estate appena trascorsa si è però abbattuta sulle cozze tarantine e sui pescatori come un fulmine a ciel sereno. L’eccesso di calore le ha letteralmente svuotate. Una disgrazia, l’ennesima potremmo dire, si è abbattuta sui poveri pescatori nell’indifferenza più totale. Ancora una volta quei poveri pescatori si sono ritrovati soli con le proprie responsabilità, non bastavano i danni procurati dalla diossina e relativi giustificati allarmi.
Eppure le cozze tarantine dovrebbero assurgere a patrimonio dell’umanità. Un marchio di qualità le dovrebbe proteggere dagli insulti di chi ha giocato sul loro destino, infischiandosene dei sogni e del sudore di gente coraggiosa, ostinata nel difendere il proprio mare.
Le cozze di Taranto rappresentano l’alto sacrificio compiuto dai sacerdoti del mare che da sempre lo hanno custodito con l’amore di una mamma per il proprio figlio. Ne custodiscono i segreti di chissà quanti pensieri confessati alla Luna e, di giorno, raccontati al vento. Forse sperando che quest’ultimo li conducesse in qualche pozzo dei desideri, affinché li realizzasse.
Non possiamo e non dobbiamo lasciare soli i pescatori. Dobbiamo batterci perché venga loro riconosciuto lo stato di calamità. Dobbiamo lottare al loro fianco per difendere il nostro made in Taranto.
In Sardegna, in particolare ad Olbia, così com’è avvenuto tempo fa ad Orbetello, il sindaco si è attivato per chiedere alla Regione lo stato di calamità naturale.
Cosa ha Olbia che Taranto non ha?
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