di Arianna Di Paolo (Esclusiva Giornale Armonia)
“La musica fa parte della mia vita, non potrei mai abbandonarla. Morirei se così fosse.” Con questa semplice frase Silvano Chimenti esprime l’essenza di chi è vissuto di pane e musica. Figlio di operai, dopo aver studiato pianoforte sceglie di passare alla chitarra, che impara da autodidatta. La sua carriera inizia con la formazione del gruppo beat dei Planets, con il quale si trasferisce da Taranto a Roma e continua poi con i Pataxo and the Others; a Roma intraprende inoltre un’intensa attività di session man presso la RCA.
Nei primi anni ’70 suona in alcuni dischi che faranno la storia della musica italiana, come “Questo piccolo grande amore” di Claudio Baglioni, “Tutto Modugno” di Domenico Modugno, “Non al denaro non all’amore né al cielo” e “Storia di un impiegato” di Fabrizio De André. Negli stessi anni incide inoltre “Viaggio attraverso i problemi dell’uomo – droga” per la Roman Record Company di Gaetano Pulvirenti: un album interamente strumentale, con influssi beat, jazz e psichedelici. Collabora con Ennio Morricone per le colonne sonore di film come “Quattro mosche di velluto grigio”, “Sacco e Vanzetti” e “Il mio nome è Nessuno” e entra come chitarrista nell’orchestra Rai, suonando in numerose edizioni del Festival di Sanremo.
Cosa hai pensato la prima volta che hai iniziato a suonare? Com’è nato il tuo incontro con la musica?
In realtà è stato un incontro casuale, credo che nel mio caso l’innamoramento sia avvenuto pian piano; studiavo pianoforte al liceo musicale a Taranto ma avendo le mani troppo piccole trovavo difficoltà nel fare le ottave e ricordo ancora che il maestro mi dava degli schiaffi sulle mani. Inoltre, avevo un fratello che prima di partire per la leva militare comprò una chitarra che per ovvi motivi fu costretto a lasciare a casa ed io pregavo continuamente mia madre di farmela prendere: allora succedeva quello che ancora oggi accade nelle famiglie, ossia le infinite raccomandazioni di mia madre che aveva paura la potessi rompere. Da lì ho iniziato a strimpellare, così per caso. Per me, come per molti artisti provenienti dal sud, fondamentale fu la cosiddetta scuola del barbiere, tutti quei vecchietti davanti casa che suonavano mandolini e chitarre: li guardavo con attenzione cercando di imparare dai loro movimenti. Dopo un po’ iniziai anche a saltare la scuola per andare ad ascoltare i complessi che suonavano durante i matrimoni.
Cosa significava per te a quell’età suonare?
Io vengo da una famiglia semplice, mio padre lavorava all’arsenale di Taranto e sicuramente non avevamo il progresso che hanno i bambini di oggi; sono nonno, ho due nipotini e noto un’enorme differenza tra le generazioni. Noi ci accontentavamo di giocare con il piattino, con i tappi delle bottiglie, di fare qualche disegnino sulla strada quindi per me suonare rappresentava anche una sorta di gioco diverso. Ma ripeto noi non avevamo nulla confronto ad adesso, forse anche per questo la nostra creatività veniva fuori più facilmente. I bambini di oggi sono più pigri da questo punto di vista e gli insegnanti spesso non sono più in grado forse per mancanza di entusiasmo e voglia di cogliere il talento dei giovanissimi e ad aiutarli nell’esprimerlo. Forse, soprattutto all’inizio, ci sarebbe bisogno di più sensibilità e meno prospettiva accademica.
Cosa ha significato per te il trasferimento da Taranto a Roma?
A dir la verità è stato un momento terribile ma rifarei tutto da capo. La prima volta a Roma venni con un gruppo rock della mia città ed ero ancora minorenne. Feci una trafila di fame, inoltre il gruppo poi si sciolse e così fui costretto a tornare a Taranto: ma ormai in quell’ambiente non stavo bene e allora decisi di ripartire per Roma. A Roma formammo diversi gruppi, che di volta in volta si scioglievano, fin quando alla RCA mi proposero di lavorare come turnista. Da quel momento ricordo che passavo intere giornate in una pensione vicino Fontan di Trevi, in Via Vicolo dei Modelli, sperando che l’RCA mi chiamasse per un turno oppure l’Unione Musicisti Roma. Avevo messo in difficoltà anche la proprietaria della pensione e la sera quando tornavo, entravo in punta di piedi perché non riuscivo mai a pagarle l’affitto della stanza. Poi finalmente un giorno arrivò la chiamata per il primo turno e così iniziai a lavorare, più avanti firmai addirittura un contratto come arrangiatore.
Una grande parte della tua carriera è stata impegnata a Sanremo, cosa ricordi del Festival?
Nel 1992 ci fu a Roma l’ultimo Eurofestival, suonato interamente dal vivo di cui io ero l’unico chitarrista solista; dopodiché la Rai mi chiamò, ci fu una grande richiesta da parte dei discografici che iniziarono sempre di più ad affidarsi alle mie competenze mettendomi quasi in imbarazzo. Il lavoro quindi aumentò notevolmente, in quel periodo collaboravo con altri due grandi professionisti Vincenzo Mancuso e Giorgio Cocilovo. In realtà quando la Rai mi chiamò, io già suonavo nell’orchestra di Sanremo; in tutto ho fatto 33 anni di Sanremo. I momenti più belli sono legati al dopo Festival, quando si smontava tutto e tutti insieme si andava a mangiare alla trattoria da Rocco: portavamo gli strumenti e iniziavamo a suonare di nuovo per altre due tre ore, eravamo tutti insieme e per me il vero Sanremo era quello. Ogni volta che inizia il Festival ricordo tutti i momenti, Sanremo è stata la mia seconda città e durante quel periodo il mio cuore è sempre là.
Com’era il mondo discografico di allora, cosa c’era di diverso confronto ad oggi?
La RCA la ricordo con grande affetto, era una sorta di grande famiglia, registravamo, nelle pause giocavamo a pallone tutti insieme con Gianni Morandi, Lucio Dalla; pensa ricordo ancora i nomi dei baristi, Gino e Mario. Si faceva musica, si pensava a quello. La musica si viveva anche di più. Pian piano la burocrazia ha rovinato tutto questo. Oggi è tutt’altro ambiente dove purtroppo fare un disco è facile, il problema è dopo. C’è tutto un mondo un po’ particolare. C’è tanta creatività ma poca domanda. Forse internet in questo senso è stato un regresso.
Tra le tue tante collaborazioni, si legge il nome di Fabrizio De André, cosa ricordi di lui?
Con Fabrizio facevamo a gara a chi fumava di più. Era una persona che ricordo con gioia, metteva serenità, taciturno ma quando parlava era fascinoso, stavi ad ascoltarlo, era un grande vero poeta. Fabrizio era fantastico. Ci vedevamo all’Ortofonic , lo studio di registrazione di Roma dove ora c’è il Forum, si andava insieme a mangiare un panino e bere una birra: con Fabrizio la birra non mancava mai. La prima volta che ho sentito la voce del figlio mi sono commosso, mi ricordava in maniera impressionante il padre. Sentivo lui e sentivo Fabrizio. La vocalità era identica. Mi dette una grande emozione.
© Giornale Armonia Registrato al Tribunale di Taranto numero 638 del 23/11/2004
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