Di Nicola Lofoco (Giornalista e Blogger)
Le immagini del servizio televisivo di Paolo Frajese dopo la strage di via Mario Fani a Roma, dove venne rapito l’onorevole Aldo Moro ed i suoi cinque agenti di scorta barbaramente assassinati, sono tra le più importanti della nostra storia. Quella mattina le Brigate Rosse si resero responsabili di ben cinque omicidi nei confronti di due padri di famiglia e di tre ragazzi giovanissimi. Da quel tragico giorno sono passati ben 37 anni, e ancora oggi è vi chi annida ancora dubbi e perplessità su quanto sia successo realmente quella mattina. Nonostante i brigatisti abbiamo ammesso le proprie responsabilità (in particolare Valerio Morucci ha dato una descrizione molto ampia su quanto accaduto), si è spesso tesa la mano della credibilità verso i testimoni, che hanno assistito ad una sanguinosa scena per pochi minuti condizionati da un plausibile stato d’animo molto agitato.
In particolare è stata sempre presa molto in considerazione la testimonianza di Alessandro Marini, ingegnere civile, che si trovò a bordo del suo motorino all’ incrocio tra via Fani e via Stresa nel momento cruciale dell’ eccidio. Tutte le sue testimonianze sono sempre state alquanto lacunose e poco precise. Nella sentenza del processo d’appello presieduto dal giudice Giuseppe De Nictolis si può leggere: “Invero, per quanto riguarda il numero, solo il teste Marini parla di un numero di persone superiore a nove. Ma, la versione fornita dal predetto teste appare essere più una ricostruzione “a posteriori” del fatto. Se egli fosse stato presente all’intero svolgimento della vicenda – come afferma – sarebbe stato notato da qualcun altro dei testi“.
L’inattendibilità delle sue dichiarazioni è anche sancita da questa sentenza e riesce a farci comprendere come molti dei tanti equivoci sulla ricostruzione di quello che è accaduto in via Fani sono in gran parte derivati dai racconti fatti nei vari processi dall’ingegnere. Uno degli equivoci più grandi è stato quello della famigerata moto Honda, con due persone a bordo. A detta di Marini uno dei due aveva il volto coperto da un passamontagna, mentre il secondo era identico all’attore Edoardo de Filippo. I due esplosero dei colpi verso il parabrezza del suo ciclomotore con quella che lui stesso definisce una “sventagliata di mitra”. I due della moto però, poi identificati da una inchiesta della magistratura in Giuseppe Biancucci e Roberta Angelotti appartenenti all’autonomia romana, erano a detta degli altri testimoni entrambi a visco scoperto. Allora come mai Marini ne ricorda uno a viso coperto da passamontagna? Guarda caso, poco prima del passaggio della Honda, fugge via per via Stresa una fiat 128 con a bordo i brigatisti Alvaro Lojacono, che aveva il viso coperto da un sotto casco da motociclista, simile a passamontagna, e Alessio Casimirri che era identico ad Edoardo de Filippo.
La baraonda di equivoci su via Fani è continuata anche con la famosa perizia balistica di Jandevito, Lopez e Ugolini risalente al 1978, che attribuiva 48 dei 91 bossoli dei proiettili esplosi dai brigatisti ad un’unica arma. E’ stata questa una delle più gravi inesattezze fatte nella ricostruzione della dinamica dell’agguato. Quella perizia era stata fatta a caldo, senza sapere quali fossero realmente le armi usate. La misteriosa presenza di un “superkiller “ in via Fani viene smentita categoricamente con la successiva perizia di Salza e Benedetti, che hanno potuto fare un lavoro più approfondito anche perché sapevano esattamente quali armi erano state usate.
In realtà, i mitra in possesso di Valerio Morucci e Franco Bonisoli erano identici, due vecchi FNAB 43 risalenti alla seconda guerra mondiale. Si trattava di un arma molto rara che ha provocato confusione nell’ analisi dei colpi esplosi da entrambi. Quei 48 colpi erano stati in realtà sparati dai due FNAB 43. Il famoso cecchino di via Fani non è quindi mai esistito. Altro “ mistero” che invece ha anch’ esso una semplice spiegazione è quello relativo al fatto che 31 dei famosi 91 colpi erano stati repertati come appartenenti ad armi “ non convenzionali” utilizzati dai paramilitari di Gladio.
Soprattutto questo particolare ha dato nel tempo fiato a chi ha sempre sostenuto la tesi che l’agguato di via Fani fosse stato , in realtà , un complotto organizzato e pianificato dai servizi segreti. La particolarità che faceva ritenere tutto questo era dovuto al fatto che quei bossoli erano ricoperti di vernice e non avevano l’anno di fabbricazione. Ma era la stessa identica procedura usata dai tedeschi durante gli anni della RSI: per evitare l’ossidazione dei proiettili questi venivano verniciati. E in quel periodo si evitava anche di inserire su di essi l’anno di fabbricazione. Erano quindi munizioni provenienti da dei normalissimi stock bellici. Tutto questo credo posso bastare nel dire che nella ricostruzione dell’agguato di via Fani sono state dette nel tempo troppe inesattezze frutto anche di testimonianze poco credibili. Un passo in avanti nella ricerca della verità si può fare leggendo la confessione fatta nel 1986 nel suo memoriale da Valerio Morucci, un brigatista ritenuto credibile nella sua confessione su quanto accaduto in via Fani nelle sentenza del processo d’appell . Una verità che forse è sempre stata sotto i nostri occhi e che farebbe bene non solo alla nostra storia ma al recupero della nostra coscienza civile. Forse, per ben 37 anni, si è dato troppo spazio ai tanti ed inutili “ falsi misteri di via Fani”.