Di Paola Bozzani
In uno degli ambienti più caratteristici della città vecchia, Corte Zeuli, un piccolo cortile circondato da antichi palazzi, sul lato destro c’è la “vera” di un pozzo, costituita da un blocco unico di pietra scolpita con scanalature a tortiglioni. Le condizioni di conservazione ne denunciano l’antichità. La signora che abitava nel basso di fronte al pozzo e che, fino a qualche anno fa, impastava ogni giorno le orecchiette davanti alla sua casa nel cortile, spesso raccontava che sotto a quel pozzo c’era una grande cisterna e sempre aggiungeva “chedd’acque s bveve”. Anche gli abitanti del vicinato ripetevano e ripetono spesso la stessa cosa, forse ricordando quanto riferivano i loro parenti più anziani che quell’acqua l’avevano bevuta quando la vera non era ancora chiusa dalla lastra di cemento che oggi la ricopre. Il pozzo, infatti, prima che gli Zeuli acquistassero i palazzi intorno al cortile a fine ‘700, doveva essere, da molti secoli, un pozzo pubblico, ad uso del popolo.
Nelle ricerche condotte per ricostruire la storia di palazzo Zeuli, tra gli altri documenti consultati, conservati nel fondo notarile dell’Archivio di Stato di Bari, vi è l’apprezzo dei sette palazzi acquistati dagli Zeuli, compilato a seguito della morte di Onofrio Zeuli dall’ing. Mastropasqua alunno di Giuseppe Gimma nell’anno 1803. L’apprezzo descrive tutte le parti dei palazzi misurate in palmi e canne napoletani e valutati in ducati ( per palazzo Zeuli: la facciata dalla parte della Chiesa dei Gesuiti valutata ducati 16 la canna, la facciata dalla parte di S. Gaetano valutata a ducati 13 la canna, la parte sul retro del palazzo, affacciata sulla strettola di Caggiani valutata a ducati 10 la canna). Quando si giunge alla descrizione del cortile l’apprezzo parla della presenza di “un pozzo d’acqua salza situato nell’atrio del portone” e lo valuta ducati sei. Per molto tempo questa parte dell’apprezzo mi ha meravigliato, a cosa poteva servire un pozzo che conteneva acqua salmastra? Molto tempo dopo, in maniera del tutto casuale, è arrivata la spiegazione. Per le competenze che mi erano assegnate in ufficio ho diretto diversi progetti di riordinamento dell’archivio dell’Acquedotto Pugliese ed ho, per questo, studiato la storia della costruzione di questa importante opera e del dibattito che ne ha preceduto la realizzazione. Il problema di dare acqua alla Puglia era di una tal evidenza sociale che tutti i personaggi di rilievo se ne erano occuppati. Così studiando questa storia ci si imbatte nei nomi delle famiglie e degli uomini all’epoca più in vista in Puglia: Giordano Bianchi Dottula marchese di Montrone, Giovanni Chiaia poeta e magistrato, Giulio Petroni storico e presidente della Real società economica, Giuseppe Patroni Griffi grande proprietario terriero e, ancora, gli onorevoli Imbriani e Salandra. Furono, quindi, nominate diverse commissioni di tecnici.
Nel 1878-79 l’ingegnere Angelo Filonardi, nominato dal Governo a capo di una di queste commissioni, incaricata di fare una relazione sulle acque che si bevevano nella regione, girò tutta la Puglia in lungo ed in largo. Nella relazione stilata al termine dell’incarico egli dichiarò che le piogge lavavano le strade immonde in cui si usava sversare i liquami e “quella broda spartana senza essere altrimenti filtrata veniva a depositarsi nei cisternoni comunali costruiti con ingenti spese. Il solo processo dei sedimenti delle materie pesanti riusciva a chiarificare in parte quei liquidi”. Inoltre, nei paesi della costa si beveva acqua salmastra perché tutti i pozzi fino a cinque chilometri all’interno erano infiltrati di acqua di mare. Era questa, dunque, la spiegazione della presenza del pozzo di “acqua salza”. Coloro che dovevano servirsi dei pozzi pubblici bevevano, nella migliore delle ipotesi, acqua salmastra, mentre gli abitanti delle case “palazzate” fornite di cisterne di acqua piovana avevano a disposizione acqua di buona qualità Dall’apprezzo apprendiamo che palazzo Zeuli ne aveva quattro tutte di identica dimensione di palmi 15X10 del valore di venti ducati ciascuna.
Nelle campagne la situazione era ancora peggiore, le acque erano raccolte in piscine nelle quali convogliavano le acque scorrenti dai terreni coltivati, dai fossati laterali delle strade e, talvolta, finanche da aie e iazzi. Nella sua relazione il Filonardi riferiva che tra Molfetta e Giovinazzo l’acqua di una piscina mandava un odore nauseabondo e, indagata la causa, si vide che la piscina oltre a raccogliere le acque provenienti dalla strada riceveva gli scoli di un vicino letamaio.
La popolazione era afflitta -dice il Galanti- da molte malattie: tifo, dissenteria, cachessia, malaria e anche colera, peste e vaiolo. A Bari e in tutta la Puglia si susseguivano le epidemie di colera ( 1837 – 52 – 54 – 55 – 66…), furono questi i motivi che convinsero lo Stato a finanziare un’opera talmente mastodontica che si prevedeva dovesse costare più dell’Istmo di Suez: la costruzione dell’Acquedotto pugliese. L’acqua è arrivata a Bari, alle fontane pubbliche, nel 1915, tuttavia a distanza di un secolo non è ancora stato risolto il problema di un adeguato approvvigionamento di acqua per la città vecchia, come dimostrano le numerose recenti rimostranze della popolazione.
Palmi e canne: antiche misure napoletane, un palmo è uguale a cm. 26, una canna è uguale a 8 palmi.
Iazzo: porzione di terreno recintato usato per tenere gli animali
Il protocollo notarile dell’anno 1803 del notaio Nicola De Rella Ramires di Bari, in cui sono contenuti i documenti citati, è conservato presso l’Archivio di Stato di Bari.