Di Ester Lucchese
In questi giorni molti giovani che si sono diplomati nello scorso anno scolastico, stanno scegliendo la sede universitaria, dopo essersi sottoposti
ai test d’ingresso, perché molte facoltà sono oramai a numero chiuso. Molto spesso l’Università pubblica, a causa della inadeguatezza della struttura e delle aule, non può garantire l’accesso ad un numero indefinito di studenti. Si vuole incoraggiare la meritocrazia anche se non sempre è così! Resta il fatto che però per molte famiglie è comunque dispendioso dover far fronte ai vari tentativi (che spesso non hanno un esito positivo), seppur effettuati nell’ambito della propria regione, da parte dei loro figli. Molte famiglie del sud Italia non possono permettersi di mantenere il proprio figlio in una città del Nord a causa delle tasse, dei costi degli alloggi e del vitto. La qualità dei programmi accademici delle nostre università e la qualità del servizio didattico, prestato dagli atenei pugliesi, non è da meno rispetto ad altre realtà accademiche italiane. Il numero chiuso, comunque, ha inibito anche quest’anno il numero degli iscritti e, in molti casi, quegli stessi giovani che non hanno superato i test ora sono ad infoltire la schiera dei disoccupati, iscritti regolarmente al Centro per l’impiego, costretti a rimanere sotto la custodia della propria famiglia d’origine. Alcuni si tengono impegnati con attività spesso non retribuite, altri aspettano il concorso per entrare nelle Forze Armate, altri ancora si accontentano di vivere alla giornata svolgendo anche i lavori più umili e sottopagati, infine ci sono quelli che lavorano in nero, senza un vero contratto di lavoro. Ma quale garanzia stiamo offrendo al loro futuro, senza alcuna certezza, dove la disoccupazione soprattutto al Sud, è diventata un fenomeno dilagante? La causa è rappresentata dalla situazione economica che va sempre più peggiorando nell’intero Paese, non solo al Sud. Si calcola infatti che il numero dei disoccupati aumenterà di oltre 1,5 milioni di persone di un’età compresa fra i 15-66 anni. I giovani disoccupati non solo risultano esclusi dal mondo del lavoro ma sono al di fuori di qualsiasi percorso formativo. Bisogna incoraggiare una politica a favore della crescita che non impoverisca le risorse umane del Paese. La precarietà diviene in molti casi una realtà concreta con cui si convive quotidianamente. Tanti giovani sono considerati a tutti gli effetti popolazione inattiva. Essi diventano insofferenti per la prolungata permanenza in casa. Il programma occupazionale deve essere, dunque, caratterizzato dalla creazione del lavoro, microimpresa e lavoro autonomo, dalla razionalizzazione dei percorsi, dall’aumento della loro autostima, da un sostegno psicologico persistente, da vari corsi di aggiornamento, dai processi di candidatura, dai tirocini o l’apprendistato nelle aziende, da percorsi linguistici, in alcuni casi all’estero. Vi dovrà essere dunque non solo formazione ma orientamento nei giovani a stretto contatto col mondo del lavoro. Il lavoro, pur rimanendo un elemento centrale nella vita delle persone, cambia forma e si sostanzia sempre più spesso in una moltitudine di esperienze che si affiancano o si susseguono nel corso degli anni. La forma e il contenuto che queste esperienze assumono nella vita degli individui, vengono a far parte di un percorso più o meno frammentato che si snoda lungo tutto l’arco della vita a cui bisogna dare una direzione e un senso. Nel momento in cui il lavoro diventa un “percorso” e non “un posto”, è evidente che c’è bisogno di un percorso, parallelo, e intrecciato, di formazione, di orientamento e di supporto in termini di servizi. Il nostro presidente della Repubblica ha sempre posto l’accento sull’importanza dell’incoraggiamento ai tanti giovani che non vedono profilarsi la possibilità di realizzarsi ed avere un’occupazione degna nel loro Paese. Per trasformare e svecchiare la società occorre favorire, pertanto, la creatività, gli ideali, l’entusiasmo, l’energia, il talento e la volontà.
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