Di Pietro Carrozzini
Il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non esiste, è un aborto giuridico. In questi termini si esprimevano noti avvocati di noti mafiosi alla sbarra nel I maxi processo a Cosa Nostra che Falcone e Borsellino contriburono ad istruire a Palermo. Processo che si concluse con la condanna di quasi tutti gli imputati per il reato di associazione mafiosa, confermato nel gennaio del 1992 dalla Corte di Cassazione. Prima di allora, anche alcuni Procuratori della Repubblica, affermavano che la mafia non esisteva, che i reati commessi erano il frutto di distinti e diversi disegni criminosi. L’effetto di tale ragionamento era quello di indagare sugli stessi in maniera separata senza comprendere, così come era, l’unicità di un fenomeno complesso frutto di un unico volere, quello della “cupola”. La rivoluzione giuridica introdotta da Falcone e Borsellino permise, negli anni a seguire, la possibilità di concentrare le indagini sui delitti di mafia e di perseguirli nella loro unitarietà ma, soprattutto, di comprendere il fenomeno e di combatterlo più efficacemente. Tra i mafiosi vi erano quei soggetti che pur non facendo parte ufficialmente del sodalizio criminale (non erano per così dire affiliati, “pungiuti”) con esso collaboravano dall’esterno per ricavarne vantaggi personali (per esempio voti dei picciotti alle tornate elettorali) dati dalla forza intimidatrice dell’associazione. Come trattare penalmente questi individui? In effetti non vi è una previsione specifica nel nostro codice penale per punire tali soggetti al pari dei mafiosi. Falcone, nella famosa requisitoria, utilizzo il termine “contiguità”, cioè l’agire di quell’individuo che si avvale della stessa forza intimidatrice dell’associazione pur non facendone ufficialmente parte. Di lì la creazione giurisprudenziale del concorso esterno all’assocazione mafiosa e il trattamento penale identico a quello previsto per i picciotti. Oggi, un procuratore generale della Cassazione ci dice che è tutto sbagliato perché il reato non esiste. Pertanto Giovanni Falcone, Paolo Borsellino ed altri tantissimi magistrati si sono sbagliati, e dunque il processo a Marcello Dell’Utri (già cofondatore del partito “Forza Italia”, e collaboratore importante dell’ex Presidente del Consiglio Berlusconi),che risulterebbe difficile chiamare senatore secondo il significato attribuito dal diritto romano a chi detiene questa carica, ovvero: uomo vecchio, saggio ed eticamente irreprensibile, è da rifare. Possa la sua coscienza riposare tranquilla.