Di Enzo Carrozzini
Riflettiamo sulle molteplici configurazioni di lavoro che sono state introdotte nel nostro sistema economico, cui sono soggetti, ormai, i lavoratori meno fortunati (o più sfortunati) di questo paese L’introduzione della flessibilità ha avuto nel passato il merito indubitabile di aver concorso alla riduzione del tasso di disoccupazione, sebbene, ormai, l’eccessivo ricorso a queste forme abbia creato livelli di precarizzazione intollerabili del lavoro stesso . Giusto per fare un esempio , Cito a memoria,all’entrata in vigore della normativa, il caso del robusto incremento verificatosi tra le partite Iva Individuali di persone dedite all’artigianato, ed il conseguente decremento delle unità lavorative nel settore. Quella sensibile variazione non era in alcun modo riconducibile alla sacra “voglia di intrapresa” di quelle persone, (che esiste in ognuno di noi beninteso ), ma era più verosimilmente complementare all’ istinto di sopravvivenza che imponeva loro di camuffare un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato come semplice contratto di fornitura di beni o servizi. E poi i Co.Co.co., i Co.co.Pro, i qui pro quo; gli interinali, i part time, i temporanei, gli a cottimo, gli ad ore e a squillo…. e taccio sulle condizioni da terzo mondo in cui sono relegati i dipendenti delle cosiddette cooperative di lavoro, che rappresentano l’ennesimo escamotage legale concesso ad imprenditori che vogliano risparmiare sul costo del lavoro, che, in compenso, e soprattutto e nonostante questi periodi, lasciano pressoché invariato l’ammontare del loro conto utili. Dall’ 11 Novembre 2001 giorno che sancì l’entrata ufficiale nel WTO (WORLD TRADE ORGANIZATION-Organizzazione mondiale del commercio) da parte della Cina i nostri mercati sono stati invasi di cose li prodotte, e abbiamo avuto modo di osservare anche la presenza ingombrante di attività economiche da parte di imprenditori cinesi nel nostro tessuto economico. Niente da lamentarsi, d’accordo, a prescindere del razzismo latente e patente della popolazione autoctona, che non riesce a convincersi che globalizzazione, multietnicità e pluralismo culturale possa anche tradursi, a determinate condizioni, in opportunità di sviluppo e benessere. Gli imprenditori italiani sono molto bravi a studiare apprendere e realizzare con gusto tipico nazionale le novità che provengono dall’estero. E sopratutto in periodi di recessione come questi, si sta assistendo a quella pratica che potrei definire volgarmente “cinesizzazione della forza lavoro italiana”. In sostanza questa attività reca alla base la seguente valida (per chi la partorisce,ovviamente) argomentazione: se i cinesi “ITALIANI” , lavorano duramente con ritmi incessanti di lavoro, non si lamentano (e non possiamo udire loro recriminazioni…), in cambio di una ciotola di riso o poco più, perché non adottare alla nostra maniera questa simpatica e proficua e nuova tipologia di lavoro? E’ quanto sta avvenendo nelle micro aziende italiane. Quando si ascoltano eminenti opinion leader , maestri del pensiero, economisti e tuttologi assortiti, dissertare sulle presunte “opportunità che questa crisi offre” per fare le famose “riforme di cui il paese ha bisogno…”, viene da chiedersi se la riforma del lavoro preveda la sua “sino-tipizzazione ” ( sto per inoltrarmi su di un neologismo per nobilitare la volgarità di cui sopra…), che preveda lavoro senza soluzione di continuità ma a paga decisamente cinese…. E’ il caso che una bella politica, degna di tal nome, preveda nella sua agenda come contrastare questa innovazione.
Il governo Monti su cui buona parte di cittadini italiani fonda la speranza di un rilancio dell’economia italiana, riunirà a breve le parti sociali per incominciare a discutere su di una riforma del lavoro, che possa favorire principalmente la ripresa dell’occupazione ma ci auguriamo riesca, contemporaneamente,ad eliminare le eccessive disparità che in questo comparto persistono, poichè non è più pensabile continuare ad assistere a guerre tra poveri….